Hamlet - Kenneth Branagh Claudius - Derek Jacobi Gertrude - Julie Christie Ophelia - Kate Winslet Laertes - Michael Maloney Horatio - Nicholas Farrell Polonius - Richard Briers Ghost - Brian Blessed
Musica di Patrick Doyle Fotografia di Alex Thomson Scenografie di Tim Harvey Prodotto da David Barron.
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Sono molti i motivi che fanno amare l’HAMLET di Branagh. C’è Shakespeare prima di tutto, ovviamente, e il suo testo più famoso, il personaggio più grande che il teatro o la poesia moderni abbiano saputo creare, il fantasma che abita le nostre coscienze. Appunto per questo però non è affatto scontato che una trasposizione cinematografica dell’Amleto riesca degna del suo titolo. Questo HAMLET di Branagh è innanzitutto una scommessa d’intelligente amore. Dunque cercherò di indicare i segni di questo amore e intelligenza, che sono anche i pregi del film. Il primo fra tutti, quello da cui discendono gli altri, è quello di offrire al pubblico cinematografico la versione integrale del capolavoro shakespeariano. In precedenza questo non era mai stato osato: si riteneva che il pubblico che frequenta il cinema non fosse in grado di sostenere se non versioni ridotte e adattate di questo lunghissimo pezzo teatrale che, del resto, anche sul palcoscenico era solitamente tagliato. Gli appassionati lettori dell’Amleto shakespeariano sanno tuttavia che l’inusuale lunghezza di questo dramma non è un suo (difettoso) aspetto solo formale, ma rappresenta e riflette un aspetto centralissimo del suo fascino: l’esperienza della sua inesauribilità. Così come la sua imperfezione, le interne contraddizioni e le disuguaglianze, nonché la stessa incertezza dello scritto, contribuiscono a rendere l’Amleto simile ad un corpo vivente più che a un’opera letteraria. La fedeltà amorosa di Branagh a questo corpo vivo (ad entrambe le redazioni più autorevoli dello scritto shakespeariano) non si muta mai in una sua pedissequa lettura. Branagh non si appoggia come i suoi predecessori (Olivier o Kozincev o Richardson o Zeffirelli) a interpretazioni psicoanalitiche o filosofiche o socio-politiche di Amleto, che di per sé, indipendentemente dal loro valore e dal risultato artistico, sono per forza riduttive (e forse sono rese a loro volta necessarie proprio dalla preventiva decisione di sfrondare il testo) . Ciò non toglie che, nell’aderire al testo e al personaggio di Amleto senza tagli e senza forzature, Branagh opera in realtà una scelta forte e precisa: quella di restituire ad Amleto quanto più è possibile della pienezza inquietante del suo mistero. Più che riflettere sul personaggio, Branagh si riflette in lui e nel suo interrogarsi tra ragione e passione. Come è inevitabile che sia per un attore. E però anche come è giusto che sia, perché Amleto non è un comune personaggio teatrale, ma è principalmente uno specchio, in cui, dopo il suo autore, si è riflessa la coscienza occidentale moderna e nel quale ciascun lettore o spettatore è portato ancora sempre a riflettersi (con meravigliose conseguenze per il progresso nella conoscenza di sé). ![]() Il riflettersi dell’attore Branagh in Amleto diventa dunque, più che espressione di quel narcisismo che alcuni critici hanno un po’ troppo facilmente voluto rimproverargli, sottolineatura della funzione più alta vitale di questo personaggio così assoluto; e il regista Branagh genialmente la mette in evidenza introducendo gli specchi quale elemento caratterizzante della scena. Si sa che lo specchio, proprio da Amleto è indicato quale metafora del teatro; e certamente la presenza di moltissimi specchi nella grande sala della reggia di Elsinore allude anche al moltiplicarsi e rifrangersi, tipicamente shakespiriano, della trama principale in sottotrame e dei personaggi l’uno nell’altro (vedi la serie di figli vendicatori costituita da Amleto, Fortebraccio e Laerte). Ma in questi specchi, dietro questi specchi, che nascondono porte, inganni od uscite, l’Amleto di Branagh soprattutto cerca se stesso, la propria salvezza, una prospettiva diversa da cui poter guardare alla propria vicenda e uscire dal prescritto destino. Allo specchio si rivolge nel momento del famoso monologo dell’ "Essere o non essere". Questo rende visibile e nello stesso tempo vertiginosa la riflessione, che finisce con l’includere anche noi spettatori (non visti, ma già catturati nel gioco di riflessione innescato dallo schermo), così come include la presenza, anch’essa non vista da Amleto, delle cattive coscienze nascoste del re e di Polonio. Ed è davvero ricco di implicazioni che Amleto infine, ficcando gli occhi nello specchio (che per noi è lo schermo), nella sua furia diretta allo zio invisibile dietro la immagine riflessa, guardi in realtà negli occhi noi, divenuti da spettatori immagine sia di Amleto che della sua cattiva coscienza. Allo specchio Amleto fissa anche Branagh che lo interpreta, così come Branagh si riflette a sua volta nella sua più segreta duplicità, per cui è e non è il personaggio che si sta chiedendo se essere o non essere. Nel principe che avanza dal fondo dello specchio, vero e irreale al tempo stesso, l’attore non può inoltre non riconoscere un attore. Amleto lo è infatti: non solo perchè si finge pazzo o declama versi e dà consigli ai teatranti sull’arte del recitare (il personaggio che fa la lezione al suo attore!), ma soprattutto perché Amleto è il principe che cerca di interpretare in una "tragedia di vendetta" la parte del vendicatore che non è. Si possono individuare nel film anche altri più sottili elementi di specularità circolare e coinvolgente. Si pensi all’entrata in scena di Amleto: la sua figura in nero viene colta brevemente, come per sbaglio, dal movimento laterale della macchina da presa che scorre tra le file degli invitati. Appare isolata, quasi emarginata, e silenziosa, incorniciata entro uno spazio angusto e rettangolare, atteggiata nella stessa posizione in cui ricomparirà, incorniciata entro la bara ed emarginata nel suo famosissimo silenzio, alla fine del film, che si chiude circolarmente nella stessa spianata in cui si era aperto. E’ come se da quella bara, finito il film, Amleto sia destinato a risorgere per riprendere dall’inizio (e potenzialmente all’infinito) la sua ricerca. Il che non solo riproduce l’esperienza che il lettore di Amleto ha di questo testo tentacolare che lo ricattura e costringe a ripercorrere e rinnovare infinite volte la lettura, ma riproduce anche, più sottilmente, l’esperienza di Amleto quale evento teatrale, che di sera in sera torna a essere attuale sul palcoscenico. Altra suggestiva scelta del film è l’ambientazione fine Ottocento. Vi si potrebbe leggere, volendo, un’allusione al mito romantico di Amleto. Più certamente si tratta credo dell’allusione a un passato che è sì passato, ma ancora comprensibile alla nostra esperienza. L’ambientazione di fine secolo inoltre, mentre si adatta alla rappresentazione di una fastosa corte europea assolutistica minacciata da una fine imminente (si pensi agli Asburgo) - il che correttamente ripropone, in altre vesti, il passaggio critico dell’epoca di Shakespeare che si stava lasciando alle spalle le trionfanti certezze del Rinascimento - lascia spazio a una stimolante destoricizzazione. La forte presenza nelle sale di questa gelida Elsinore di un’umanità multirazziale rende infatti la Danimarca del film branaghiano metafora attualissima del nostro luminoso Occidente sull’orlo di una nuova fine secolo (e millennio), assediato dall’oscuro disordine che cova negli spazi esclusi dalla visibilità (dei nostri chiari specchi televisivi). Un ulteriore segno dell’amore di Branagh per l’Amleto shakespiriano: mentre vari passi narrativi del testo vengono piuttosto ovviamente illustrati al fine di aiutare lo spettatore a seguirne il senso attraverso le didascaliche immagini (vedi l’avvelenamento del re, le scene con Fortebraccio alla corte di Norvegia ecc. ) i momenti di poesia più alta sono risolti in assoluta purezza, avvicinando in primo e primissimo piano i volti, gli occhi, le bocche che dan fiato alle parole shakespiriane. Il volto di Amleto stesso, naturalmente, ma anche quello del re nel momento del suo tentativo di preghiera, e quello della regina che pronuncia la sublime elegia della morte di Ofelia mentre la macchina da presa le si avvicina lentamente, attenta quasi a non profanare il momento sacro del canto. L’uomo di teatro Branagh sembra, appunto per questa sua origine forse, uomo devoto alla parola prima ancora che all’immagine, e riesce a darci la sensazione che siano le parole a plasmare quei volti, a governarli secondo la loro musica, a renderli poetici. Significativa perciò appare, alla fine del monologo più metateatrale del dramma (all’interno anch’essa dei molteplici giochi di riflessione tra attore-regista e autore-personaggio) quell’inquadratura del volto di Amleto incorniciato nell’angusto teatrino della sua stanza: il primissimo piano cinematografico che non nega il palcoscenico, ma si pone a confronto, anche inquietamente, con esso. Interessante, in relazione a questo discorso (e stimolante, perché sulle prime potrebbe disturbare), la resa del monologo successivo all’incontro con l’esercito di Fortebraccio ("Tutte le occasioni concorrono..."). Amleto arriva qui a concludere di voler abbracciare, quasi in emulazione di Fortebraccio, l’azione virilmente sanguinosa, negando la riflessione ("Da questo momento in poi i miei pensieri siano di sangue o non siano del tutto!"; nel testo doppiato c’è l’espressione:"...o siano deserto") - e la macchina da presa, con movimento speculare rispetto a quello degli altri monologhi, si allontana e dall’iniziale primo piano passa lentamente a un campo lungo, fino a che la figurina di Amleto viene distanziata e ridotta a un piccolo punto nel centro di uno schermo bianco di neve - che allude al vuoto/bianco della fine pellicola - dove le sue parole, tanto più gridate quanto più impotenti, sono fragore senza eco.
Le libertà che Branagh si prende rispetto al testo sono pochissime.Alcune molto felici. Per esempio, pone accanto a Polonio Ofelia che legge lei stessa al re e alla regina la lettera di Amleto, povera vittima dell’obbedienza, violata all’interno di un gioco che non può comprende e già strumento da usare per "stanare" Amleto. Ancora più felice poi l’idea di far imbattere Amleto in Ofelia dopol’uccisione di Polonio, sì che la successiva fuga del principe attraverso le stanze del castello, volpe inseguita dalla muta dei cacciatori, acquista più evidentemente l’aspetto anche vile di una fuga da sé stesso, oltre che ribadire l’ "inafferrabilità" del personaggio. Il rilievo dato da Branagh alla figura di Ofelia è un’altra delle riuscite scommesse di questo film. La scelta della fiorente e brava Kate Winslet costituisce di per sé una felicissima rottura con la lunga tradizione di Ofelie morbosamente flebili e anoressiche,già predisposte alla cupa follia, se non alla bamboleggiante imbecillità, fin dal primo comparire in scena. Eppure questo personaggio, alludendo alla prospettiva di un amore e di un matrimonio, rappresenta, in questo testo teatrale così "troppo simile alla vita",l’occasione (mancata - o spenta e annegata) per cui la tragedia potrebbe approdare al lieto fine, trasformandosi in commedia. L’interpretazione che Polonio dà della pazzia di Amleto come pazzia d’amore riesce altamente ironica in fondo perché non è che la lettura degli eventi data da un personaggio di commedia capitato dentro una tragedia per farvi la fine di un topo. E però anche il riconoscimento di Amleto:"Io amavo Ofelia", urlato di fronte al suo cadavere è tragicamente ironico per il motivo contrario: tra le molte porte di specchio furiosamente aperte, Amleto si accorge di aver mancato quella che avrebbe potuto farlo uscire dalla tragedia. Ofelia dunque è una sana e luminosa ragazza adatta a scene d’amore che impazzisce perché sradicata dal suo proprio destino creativo, schiacciata (vedi la scena dello specchio) entro conflitti distruttivi. Rappresenta il vecchio mondo di Amleto prima che il tempo andasse "fuori di sesto" - e si tratta di un mondo non tanto romantico (a dispetto dei costumi ottocenteschi), quanto serenamente, quasi goethianamente equilibrato: quello espresso del resto anche dalle armoniche architetture del luminoso palazzo, assediato però dal gelo, dalla totale insicurezza di un territorio inesplorato e notturno in cui si agitano implacati fantasmi e avanzano i battaglioni inesorabili della morte. Ritornando poi all’immagine di Ofelia schiacciata contro lo specchio che per smarrimento non sa interrogare, essa ci sembra un grande momento del film: Ofelia non sa riflettere sul proprio essere e Amleto - il quale vede se stesso e non lei nello specchio - la nega. Il successivo fondersi di Ofelia in lacrime nell’abbraccio materno del padre, prelude con rara e poetica perspicacia a quello finale nel "ruscello di pianto".
HAMLET è un film di ottimi attori: basti ricordare lo splendido re Claudio di Derek Jacobi, strappato al suo cliche di "villain" e restituito alla inquietante e complessa umanità che ne caratterizza la costruzione - e che non può emergere tuttavia che dalla rappresentazione integrale del testo. C’è poi l’ Orazio di Nicholas Farrel, il cui atteggiamento affettuoso ,lo sguardo intelligente e sollecito (oltre che da deliziose invenzioni della regia, come per esempio la sua apparizione nell’atto di leggere preoccupato il giornale o l’abbraccio con cui, quasi a nome dello spettatore, stringe a sè Amleto prima ch’egli scenda verso il duello e la morte), danno a questa classica figura d’amico, costretta di solito a fare da quasi pleonastica spalla, uno spessore tutto nuovo, che prepara con coerenza il momento finale, quando perdendo la testa tenterà di seguire il suo "dolce principe" e morire con lui. E ancora: il Polonio del bravissimo Richard Briers a sua volta si riscatta dalla tradizionale assimilazione ad una macchietta e torna ad essere padre ansioso e un uomo, non più contraddittorio e ridicolo di molti uomini "seri" che frequentano i luoghi del potere e che, credendo, non senza anche qualche fondamento, di aver acquisito esperienza di mondo, sanno dare davvero prudenti consigli, ma hanno la debolezza di ritenere di poter prevedere e controllare gli eventi conducendoli a finir bene. C’è Fortebraccio dall’imperscrutabile volto di Rufus Sewell: presenza minacciosa e inesorabile come il tempo e la morte, che alla fine travolgeranno la corte di Danimarca, voltando pagina e aprendo una qualche nuova storia che non vogliamo sapere. Non si possono nominare tutti gli attori. Forse qualche perplessità possono dare le presenze di nomi e volti troppo noti in certe parti minori, non perché non si adattino ai loro personaggi, ma perché distraggono un poco lo spettatore (penso soprattutto a Robin Williams nella parte di Osric). La recitazione di Branagh infine: è straordinaria e da sola varrebbe a rendere indimenticabile il suo HAMLET. Come se fosse nato solo per questo, egli dà corpo ad Amleto in senso,direi, letterale. O forse è Amleto a dargli la sua figura: Branagh si lascia infatti abitare e quasi plasmare da questo principe fatto di parole al punto che riesce difficile ricordare che esiste una differenza tra attore e personaggio. Quanto allo spettatore, questi riconosce in lui il proprio Amleto e se stesso. Persino quei capelli troppo biondi - probabile conflittuale allusione alla testa ugualmente artefatta dell’Amleto cinematografico di Olivier - anziché trucco e debolezza di attore, diventano niente altro che i capelli di Amleto: un dato indiscutibile,ontologico, come le sue mani, come l’ anello al mignolo, o le bretelle e il gilet - o come il suo passo e la sua voce, infine, di miracolosa duttilità. Non si può dire molto della recitazione di Branagh: occorre assistervi. Non so rinunciare tuttavia a una piccola notazione finale. Nella scena estrema, quando, dopo il fragore delle uccisioni, il velenolo atterra, è di alta suggestione la lotta del principe, che, pur consapevole (un lieve sublime sorriso) della sconfitta, tenta di opporre ancora la voce e le parole al tradimento del corpo che rapidamente vien meno; impareggiabile il suo ficcare gli occhi in quella morte che la sta vincendo sul suo spirito e quel suo morire infine da intellettuale, cioè dando voce e nome al silenzio che lo ricopre.
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