UK 1992 Durata: 113' Regia: Kenneth Branagh Interpreti: * Kenneth Branagh * Stephen Fry * Emma Thompson * Phyllida Law * Hugh Laurie * Imelda Staunton * Alex Lowe * Rita Rudner
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"Gli Amici di Peter" ha lo stesso gusto di un caffè salato. L'aroma è quello corposo, caldo e pungente di un infuso familiare; il sapore è uno scriteriato amarognolo che si svela di colpo tra la lingua ed il palato. Ingannevole pugnalata alla gola, anche fuor di metafora. Lo spettro della morte aleggia sin dalle prime battute di questo film, che a torto, solo a torto, può essere definito una "commedia". Altro che commedia. La morte, il freddo. Il Grande Freddo. Quello di un gruppo di amici che si ritrovano dopo che il Tempo li ha resi non importa chi, importa cosa: VULNERABILI. Ciascuno alimenta le debolezze proprie, e quelle altrui (soprattutto). Il Grande Freddo. Quello di un Capodanno che è Jingle Bells solo nelle apparenze: pian piano le luci, da intermittenti che erano, si spengono del tutto, e, nel buio, arriva il fulmine tagliente dell'epilogo rivelatore. Il Grande Freddo. Quello di una goccia d'acqua che si trasforma in ghiaccio, o di una scintilla che diventa un incendio (se vogliamo). Una parola, un sospiro, e di colpo il plot prende una piega diversa, rincorrendo continuamente i personaggi e se stesso in un gioco che ha le fattezze di una favola cupa. Altro che commedia. Che faccia ridere, "Gli Amici di Peter", non v'è dubbio. Se è per questo fa ridere molto. Alcune battute sono da antologia, gli attori, poi, (perfetti nei rispettivi ruoli) le rendono irresistibili. Notte fonda. Emma Thompson, da sempre (più o meno) velatamente infatuata di Stephen Fry, gli si presenta alla porta in camicia da notte e, nel tentativo di dare una sferzante scolpita alla propria nuova esistenza, lo sorprende con un "Riempimi dei tuoi bambini!". Con l'espressione ingenua di chi sta credendo a Babbo Natale. Adorabile Emma Thompson, nella parte della farfalla che si crede un bruco che vuole diventare farfalla. Adorabile Emma Thompson, alle prese con sforzi di autosuggestione che le proibiscono di rassegnarsi alla realtà: Peter, Stephen Fry appunto, è "un po' checca" (testuali parole), un bisex apparentemente libertino (fatalmente libertino, viene da pensare poi) ma così scoperto su più fronti da sembrarci innocente. Fatto sta che di riempire Emma con i suoi bambini non ne vuole sapere. Ma forse... C'è un motivo subliminale, oscuro, che aleggia frapponendosi tra i due, e non si tratta di una (banale, a questo punto) preferenza sessuale. Adorabile Stepehen Fry. Alle prese, con anni di anticipo rispetto alla sua consacrazione in "Wilde", con un personaggio "a specchio", quasi autobiografico. Gestito con ironia, e, più ancora, con grande candore. Anche se l'ombra del politically correct retorico è sempre in agguato quando si sfiorano determinate circostanze, Fry è abile nell'aggirarla con il suo sguardo fascinoso e melanconico, profondo e dolceamaro (come un caffè salato, per l'appunto). Adorabile Kenneth Branagh. In un'altra delle sue interpretazioni "reversibili", chiamiamole così. Stavolta non porta in scena l'antitesi tra il Bene e il Male in senso biblico ("Otello", "L'Altro Delitto", "Frankenstein"), ma quella tra il Successo e il Fallimento. Entrambi forme di male, a giudicare dall'intreccio: resta solo da capire quale delle due sia la minore. Gratificato dal lavoro, realizzato e dotato di un fascino ambiguo, accompagnato ad una moglie devota a fitness e colate di maquillage di restauro (cerebrale soprattutto: i suoi sforzi per sembrare un po' meno che oca si traducono in gags esilaranti, e la cena in cui beve col cucchiaio dell'acqua da un piatto è assolutamente geniale), accoglie in ultimo il sipario abbandonandosi ad una ubriacatura che, da carnefice degli altrui fallimenti, lo relega a vittima umiliante del proprio confuso Ego. E umiliata, ovviamente, dal confuso Ego di tutti gli altri. Adorabile Kenneth Branagh. Nel ballare un appassionato Can Can, irriconoscibile sotto uno styling carnevalesco che, già da solo, merita la citazione ed il fermo immagine. Adorabile ancor più, e questa è una annotazione squisitamente personale, nel pronunciare l'interiezione "Che svergognati!" nel mezzo di una colazione-shocking con rumori sospetti provenienti dal piano di sopra. Il volto si abbandona ad una morbida, divertita scheccata, ed il doppiaggio fa il resto. (Una pillola di stravaganza tra le migliori del suo repertorio) Tra Emma, Stephen e Kenneth si mette in moto un plancton di caratteri e di eventi, narrati con gusto teatrale, senza trama apparente attraverso un ritmo musicale, spesso dissonante. Sulla scia di una soundtrack esuberante (Tears For Fears, Nina Simone, Eric Clapton, Tina Turner, Pretenders, Queen, Cindy Lauper...), la Easy Lady cambia amori (ma sarebbe più giusto chiamarle appetenze sessuali vere e proprie)e umori a ritmi sincopati, la coppia in deficit di contatti col mondo esterno (colpita da sciagure familiari non ancora rimarginate) prova a costruirsi un nuovo guscio, seppur di poco più ampio a quello della loro annosa prigionia, e la governante attraversa i corridoi della grande casa con il volto compìto di chi è forte della propria, conquistata saggezza. Fino all'epilogo. Peter è malato di Aids. Ciò può significare allarmismo, segregazione, pregiudizio. Morte certa, soprattutto. Peter vuole uscire allo scoperto, essere trasparente, proprio nel momento in cui ci si prepara ad accogliere l'anno che verrà. Ad accogliere la vita, la morte che verrà. Sono gli anni (1992-94) in cui l'Aids era la peste dei gay, dei promiscui, dei temerari sessuofili. In cui la disinformazione si traduceva in vera e propria ignoranza e barriera sociale. In cui la malattia lasciava dietro di sè solamente il vuoto e il freddo. Il Grande Freddo. Ecco il rischio di un politically correct fin troppo prevedibile: coretti di "oh, poverino, quanto mi dispiace!", di "non ti lasceremo mai solo...", di "beh, è molto bello che tu abbia deciso di dircelo..." potrebbero levarsi nell'apatia canonica delle recitazioni banali. Ma non è il caso di questo film: gli attori dimenticano ogni automatismo a gettone, e mettono in gioco (un po' di) se stessi. Vibrazioni. Echi di anime perse, che finiscono, paradossalmente, con l'attaccarsi a quella che dovrebbe essere la più persa di tutte (ma non lo è, sia chiaro: non lo è) e si salvano. Una redenzione senza rituali penitenziari se non la presa di coscienza del proprio peccato. Ma anche una redenzione senza benedizione, forse. Solo con un augurio di "Buon Anno", con un brindisi che non mette a tacere il passato, che non mette a tacere il futuro, ma che permette di vivere con impensata (all'inizio) solidarietà il presente. Perchè, insomma, il messaggio è chiaro: si fa presto a dire di essere amici, ma non si è Amici fintanto che non esiste solidarietà. Fraternità. Voglia di esistere un po' anche per gli altri (complemento di vantaggio, non di causa o, men che meno, di mezzo).
"Gli Amici di Peter" è la favola cupa di una terapia dolorosa, che non
rimuove il male (anzi, ne aggiunge continuamente di nuovo), ma che inietta
una maggiore forza, una maggiore convinzione per combatterlo.
By Antonio Incorvaia - 1999
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